La Resistenza a Roma durante l’occupazione nazista. Il ruolo dei socialisti e il martirio di Bruno Buozzi


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Abstract

In this essay we want to reconsider the role of the socialists in the Resistance in Rome, showing that their role was by no means marginal. Of course, the centrality of the Garibaldi Brigades in Italy occupied by the Nazis cannot be denied, compared to them, the action of the Matteotti Brigades was actually negligible, but in Rome the socialists were protagonists. During the Nazi occupation, in conditions of grave danger, the socialist Bruno Buozzi, secretary of the General Confederation of Labor when Fascism took power, entered into delicate negotiations to reconstitute the union, committing himself so that it was unitary and therefore included communists, socialists and Christian Democrats. In Rome occupied by the Nazis, every form of disobedience acquired the characteristics of an opposition, a real resistance which, among other things, was organized by the military apparatuses of the Socialist and Communist parties. Sabotage and disturbance actions were organized daily to make life impossible for the enemy, who reacted with tremendous reprisals. Thanks to spies, the leaders of the opposition were arrested and among them also Bruno Buozzi whose arrest and death are still not clear in all their complex dynamics. Immediately after the arrival of the Allies in Rome, the union was reconstituted but the agreement, the result of mediation and the long work of Buozzi in the first place, was backdated in homage to his commitment and sacrifice.

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INTRODUZIONE In Italia la stretta autoritaria del 1926 mise la maggior parte dei dirigenti dei partiti antifascisti nella condizione di dover scegliere fra abbandonare del tutto l’attività politica, praticarla clandestinamente o lasciare il paese. Una porzione considerevole dell’emigrazione politica e sindacale si concentrò a Parigi, ove vissero e operarono a lungo i dirigenti fuggiti per tempo, compreso il segretario della CGdL1 Bruno Buozzi, il quale in seguito all’occupazione tedesca della Francia, nel 1940, fu arrestato insieme a Giuseppe Di Vittorio su richiesta delle autorità italiane. Gli anni dell’esilio furono contrassegnati dalle divisioni interne al movimento operaio, specialmente fra comunisti e socialisti, importate dall’Urss, dove il VI Congresso del Comintern adottò la linea del “socialfascismo” [C. Natoli,1980, pp. 34-50; P. Spriano, 1969, pp. 210-229]. Questa fu fatta proprio dal Pci, rompendo una tradizione di unità, specie a livello sindacale, che nemmeno la scissione socialista del 1921, dalla quale nacque il partito comunista, riuscì a mettere in discussione. La frazione comunista, infatti, lasciò il partito socialista ma restò nella Confederazione Generale del Lavoro, guidata dal riformista Bruno Buozzi. I socialisti non avevano alternative, accettarono il dato di fatto e tuttavia l’unità del mondo del lavoro, il dialogo, il negoziato continuarono ad essere per loro la stella polare dell’azione sindacale. GLI ANNI DELL’ESILIO PARIGINO Il tratto dominante all’interno dell’emigrazione politica era la divisione, netta ed a tratti perfino violenta quella fra socialisti e comunisti, rilevante quella fra lavoratori italiani emigrati e maestranze francesi. Anche il composito mondo socialista era diviso al suo interno, fin dalle origini, fra massimalisti e riformisti [L. Cortesi, 1969, pp. 223-236; E. Giovannini, 2001, pp. 29 e ss.]. In un clima di profonde e inconciliabili divisioni, Buozzi operava per abbattere innanzitutto il diaframma fra lavoratori francesi e lavoratori italiani emigrati. Egli agiva nella convinzione che se l’unità si fosse affermata fra i lavoratori, l’organizzazione che li rappresentava non poteva essere divisa. E tuttavia non potevano sfuggirgli i punti di attrito in merito alla diversa concezione del rapporto fra partito e sindacato. I comunisti subordinavano il sindacato al partito politico mentre i socialisti ne affermavano l’autonomia [A. De Bernardi, 1986, p.133; M.L.Righi, 1994, pp. 25-53; P. Neglie, 1999, p. 293; P. Boni,1984, pp. 10-14]. Fino al 1934, quando socialisti e comunisti firmarono un patto di unità d’azione, presidiare il valore dell’unità risultò solo un riferimento teorico, ma nella stagione dei Fronti Popolari la realtà si incaricò di dimostrare quanto fosse vantaggioso per il movimento operaio nel suo insieme praticare il principio: “una classe, un sindacato”. E l’esempio fu fornito proprio in Francia dalla CGT che riunificandosi vide salire il numero dei propri affiliati dai 50 mila del 1936 ai 400 mila dell’anno seguente. Era il segno palese e indubitabile che i lavoratori vivevano il sindacato unitario come un fattore positivo, come un’organizzazione realmente rappresentativa dei loro interessi e non di quelli dei partiti che li ispiravano. L’ARRESTO E IL CONFINO A MONTEFALCO Il 1° marzo 1941 Buozzi fu arrestato su richiesta delle autorità italiane e durante gli interrogatori si disse pienamente disposto “a collaborare con gli organi del Regime senza però abiure o rinunce, nello studio dei problemi economici del dopoguerra e soprattutto delle possibilità di incremento del commercio italiano in terra di Francia” [Archivio Centrale dello Stato, da adesso in avanti ACS, Ministero dell’Interno (Min.Int.), Direzione Generale Pubblica Sicurezza (DGPS), Polizia Politica, b. 204]. Era vivo in lui il desiderio di favorire lo sviluppo dei rapporti economici e commerciali fra Italia e Francia per favorire l’aumento della domanda di lavoro e temperare così la grave situazione economica in cui versavano i ceti popolari. Nel carcere della Santè, dove fu rinchiuso, era detenuto anche Giuseppe Di Vittorio, leader sindacale comunista: i due riuscirono a comunicare e i temi di discussione riguardavano i rapporti fra i rispettivi partiti e la rinascita del sindacato, concordando sul suo carattere unitario. Di Vittorio fu poi estradato in Italia e spedito al confino sull’isola di Ventotene [S.Turone, 1992:, pp. 5-7] mentre Buozzi a Montefalco, in Umbria. [ACS, DGPS, Polizia Politica, b. 204]. Dal confino Buozzi aveva ricevuto la notizia di una grave malattia del fratello, evento che gli consentì di avere una prima licenza il 12 maggio del 1942. Furono giorni di forti emozioni: dolore e costernazione per il fratello moribondo, eccitazione ed entusiasmo per il ritorno nella città di Torino, dove grazie ai tanti ricordi legati alle lotte passate e agli incontri con alcuni vecchi compagni di lotta svanì qualsiasi dubbio circa l’opportunità di aderire alla richiesta del duce e scrivere per lui sui rapporti economici italo-francesi. Non solo, in lui riprese vigore l’idea di sviluppare un’azione di opposizione a partire dalla ricucitura dei rapporti con i compagni comunisti con i quali, dopo il Patto unitario del 1934, erano stati di nuovo interrotti a causa della sigla del Patto Ribbentrop-Molotov. Tornato al confino a Montefalco, la morte del fratello gli permise di avere un’altra licenza per tornare a Torino dove approfittò sia per avvicinare i cattolici sia per riprendere contatti con i compagni socialisti che erano già stati contattati dai comunisti per costituire “la formazione a Torino di un Comitato unitario” [G. Mammarella, 1969, p. 294]. Il 7 settembre ’42 nasceva a Torino, di fatto, l’unità antifascista fra Pci e Psiup un anno prima della sigla del nuovo patto di unità d’azione. Pochi giorni dopo aderì Giustizia e Libertà, quindi furono contattati i cattolici. Durante il soggiorno torinese Buozzi incontrò il leader sindacale cattolico Achille Grandi, prima individualmente poi in incontri più strutturati durante le riunioni “del primo nucleo del Comitato del Fronte nazionale d’azione” [G. Mammarella, 1969, p. 294]. Si mossero in questi frangenti i primi passi verso il sindacato unitario, sul quale tendenzialmente convergevano anche i cattolici, ma al momento con diverse riserve e distinguo. I primi incontri Buozzi - Grandi servirono per chiarire le rispettive posizioni, ma sarebbe impreciso attribuire a questi confronti di idee valore di accordo. Naturale che in questo contesto i rapporti fra comunisti e socialisti si configurassero da sé come privilegiati; tuttavia i sentimenti unitari che animavano ed informavano l’azione di Buozzi contribuirono al coinvolgimento pieno anche dei cattolici. Il comunista Roveda lo incontrò invece in Questura, mentre dovevano sbrigare alcuni adempimenti burocratici ed approfittando della disattenzione degli agenti si fermavano sulle scale a discutere. E’ qui che si posero le prime basi per gli scioperi del marzo ’43 [ P. Spriano, 1973, pp. 168-196; C. Pillon 1972, pp. 295-300]. La situazione era propizia grazie all’andamento della guerra ed alle condizioni di sofferenza, paura e privazioni in cui versava la popolazione. Nel periodo che va dall’autunno del 1942 all’estate del 1943, quando il regime collassò, la città di Torino fu bombardata per ben dodici volte; alcuni quartieri furono quasi distrutti e 402 le vittime solo nel 1942 [S. Turone, 1992, pp. 47-55]. Le enormi ristrettezze materiali iniziarono a farsi sentire pesantemente: rabbia per la perdita della casa, bassi salari, razionamenti, scarsità di vettovagliamento, prezzi in salita. Se questa situazione la mettiamo a confronto con la realtà torinese, in cui la coscienza di classe, la combattività operaia, la capacità organizzativa avevano una lunga tradizione, si comprende meglio il motivo per cui proprio qui e a Milano si svilupparono mobilitazioni e si organizzarono scioperi a sfondo economico e politico. Un evento di straordinaria importanza accompagnò il nuovo anno: nel febbraio del 1943 l’esercito tedesco subì la gravissima sconfitta di Stalingrado, sicuramente determinante per l’esito del conflitto. La vittoria sui nazisti alimentò la speranza per una fine della guerra in tempi brevi, con la sconfitta dell’Asse, e quella di un profondo rivolgimento sociale. Sull’esempio di Torino, gli scioperi si allargarono ad altre aziende ed altre regioni; le rivendicazioni erano prevalentemente di natura economica ma si dispiegavano anche in tutta la loro valenza politica. Il fatto che l’astensione dal lavoro venisse punita con il trasferimento coatto in Germania, assai più temibile del “semplice” arresto, e che ciò nonostante gli scioperi siano stati ugualmente attuati, denota non soltanto lo stato di prostrazione e la rabbia accumulata, ma la costante tendenza a fare di una rivendicazione economica un momento di lotta politica, il permanere di una tradizione sovversiva nella classe operaia italiana [P. Neglie, 1999: 364]. Mussolini non volle mai riconoscere l’aspetto politico degli scioperi per non legittimare l’antifascismo ed anzi impedire che penetrasse fra le masse lavoratrici. Ma anche in questa occasione il duce appariva del tutto scollegato dal paese reale. Lo sbarco degli americani in Sicilia (9 luglio’43) diede il colpo di grazia al Regime: la sera del 24 luglio fu convocato il Gran Consiglio del fascismo che a maggioranza approvò un ordine del giorno che restituiva al Re il comando delle forze armate e le prerogative costituzionali. L’implicita sfiducia a Mussolini portò al suo arresto e alla subitanea caduta del regime. Il 27 il Re designò il nuovo governo all’insegna della continuità: il Maresciallo Badoglio, non certo un democratico non compromesso col fascismo, fu nominato capo del governo la cui prima preoccupazione fu instaurare lo stato d’assedio e proibire ogni manifestazione. Al momento il vero problema era rompere l’alleanza con la Germania, una decisione richiesta dai partiti antifascisti subito ricostituitisi che il Re ed il capo del governo sapevano di dover assumere, anche in funzione del loro progetto politico che riscontrava l’interesse e l’adesione del Premier inglese, Winston Churchill, il quale già nel 1941 pensava di tirar l’Italia fuori dal conflitto con una pace separata. [P. Neglie, 2017, p. 9; T. Piffer, 2010, pp. 18-23]. Per segnalare anche una formale presa di distanza dal fascismo, il governo dispose lo scioglimento del partito fascista, l’abolizione del saluto romano, del tribunale speciale per la difesa dello Stato, dell’Istituto di cultura fascista e fu dichiarata decaduta la Carta del lavoro. Il Re accusò Badoglio di eccessi antifascisti ma in realtà si trattava di misure di facciata con le quali rabbonire il fronte interpartitico appena costituito. Nella sostanza le misure più pesanti erano adottate contro le masse antifasciste. Il 27 luglio il capo della Polizia, Carmine Senise, reintegrato nel ruolo da Badoglio, metteva in guardia dall’azione dei comunisti i quali invitavano i militari a fare causa comune con le masse e a non sparare sul popolo e intimava di far rispettare le ordinanze militari anche con l’uso delle armi. Il Generale Roatta interpretò al meglio queste direttive attraverso una celebre circolare con la quale diede istruzioni che portarono a scontri di piazza con 93 morti, oltre 500 feriti e 2276 arresti. Egli scrisse: “...ogni movimento deve essere inesorabilmente stroncato in origine...si proceda in formazione di combattimento e si faccia fuoco a distanza, anche con mortai e artiglieria senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche” [L. Rizzato, 1979, p. 16]. La repressione continuava quasi che il nemico fosse diventato il popolo italiano, che invocava pane e pace. Intanto i bombardamenti al nord per pressare l’Italia a siglare l’armistizio si intensificavano e la liberazione dei detenuti politici ritardava. Il quotidiano “Stampa Sera” del 26 e 27 luglio pubblicò un appello dei partiti antifascisti che chiedevano la pace e per questo fu subito sequestrato. Grazie alla minaccia di uno sciopero generale agitata da Buozzi, Roveda e Grandi, la situazione si sbloccò, iniziarono ad uscire i politici ma non tutti: parecchi restarono detenuti e subito dopo l’occupazione nazista deportati in Germania. I “45 GIORNI” SUL VERSANTE SINDACALE. LA RESISTENZA A ROMA “CITTÀ APERTA” Leopoldo Piccardi ricopriva nel governo il ruolo di ministro delle Corporazioni e aveva preso atto che il nome di Buozzi compariva sulla lista dei possibili ministri stilata da Dino Grandi, per formare un governo che ristabilisse “le prerogative della Corona sancite dallo Statuto” [G. Mammarella, 1969, p. 297] così come venti anni prima era sulla lista redatta da Mussolini, intenzionato a “coprirsi a sinistra” con i rappresentanti del socialismo riformista, i quali non si prestarono al gioco. Questi fu quindi convocato dal Ministro per affidargli l’incarico di Commissario dei disciolti sindacati fascisti, in virtù della sua esperienza e del ruolo ricoperto in Italia fino al 1926. Giunto a Roma, Buozzi si consultò con Nenni e Pertini dicendosi disposto ad assumere l’incarico ma pose come pregiudiziale la presenza anche dei comunisti. Nenni era contrario alla collaborazione con la Corona, specie dopo la disastrosa gestione dell’armistizio e la fuga da Roma e infatti portò il partito socialista su posizioni di radicale opposizione al Re, fino alla “svolta di Salerno”. Buozzi si fece interprete della volontà di chiudere l’armistizio e prospettò a Badoglio l’eventualità del ricorso alle armi in caso di attacco nazista sollecitandolo, insieme a comunisti ed azionisti, a firmarlo per evitare altri lutti al Paese. Su come operare in una situazione così difficile sorsero però divergenze non di poco conto fra Roma e Milano. Al nord, forti dell’entusiasmo generato dalla caduta del regime ma soprattutto dagli scioperi, si puntava ad aumentare la pressione con azioni di tipo insurrezionale quali altri scioperi, manifestazioni e una mobilitazione costante con cui costringere il governo all’armistizio. A Roma invece prevalse una linea più moderata, sebbene si condividesse la sfiducia dei milanesi verso il governo e la sua capacità di risolvere la crisi. Siccome l’ipotesi di commissariare i sindacati fascisti ed attribuire l’incarico a Buozzi era ancora in piedi, l’ex leader della CGdL convocò una riunione di sindacalisti “con due obiettivi: il primo, un passo verso Badoglio per prospettargli la necessità di dar vita ad un governo veramente rappresentativo e democratico, e al contempo scindere la (nostra) responsabilità dagli atti politici del governo nominato da Vittorio Emanuele III. Il secondo, e fu questo il fatto più importante per gli sviluppi futuri, costituire un comitato che coordinasse unitariamente l’azione dei commissari” [S. Turone, 1992, p. 24; intervista a O. Lizzadri, “Avanti!” 3.6.1964] Per avere più forza all’interno del comitato, i socialisti non potevano restare divisi fra tante anime, pertanto il 22 agosto in casa di Lizzadri i rappresentanti di Psi, Mup, Upi diedero vita al partito socialista di unità proletaria (Psiup). E mentre i socialisti si univano “tra i comunisti romani la separazione si accentuò” [S.Corvisieri, 2005, p. 24] Pochissimi giorni dopo, il 2 settembre Buozzi e Mazzini - neo presidente di Confindustria - firmarono un accordo con il quale si ripristinavano le Commissioni Interne, abolite dal fascismo, prima forma di struttura sindacale che ora potevano essere elette da tutti i lavoratori e non soltanto dagli iscritti. [A. Maglie, 2021, p. 232; S. Turone, 1992, pp. 25-27]. La nomina di Buozzi a commissario provocò una reazione molto negativa nell’antifascismo che considerava il Re e Badoglio ancora ambigui verso il fascismo e la Germania e inaffidabili con gli alleati, dunque non accettava che un socialista collaborasse con la Corona. Tuttavia il progetto passò e Buozzi venne nominato commissario della federazione dei lavoratori dell’industria, il comunista Roveda ed il cattolico Quarello vicecommissari, Grandi alla federazione agricoltura e Di Vittorio ai braccianti. Nonostante la ferma contrarietà, il Partito d’Azione alla fine aderì solo per non rompere il fronte antifascista appena nato [A. Maglie, 2021, p. 230]. Il rischio di essere assimilati alla Corona ed al governo, la cui impronta era chiaramente conservatrice, rappresentò un rischio concreto per Buozzi, [ACS, Min.Int. DGPS, Polizia politica, b.204, cit.] il quale valutò attentamente, comprendendo le critiche, ma ritenne che c’era un modo per fare chiarezza ed evitare le trappole temute dai suoi critici: tenere distinte e separate le attività di governo e quella sindacale. Far passare il principio che il sindacato con si riteneva corresponsabile delle scelte politiche del governo. [S. Turone, 1992, pp. 22-25]. Così i sindacalisti accettarono la nomina, si formò un Comitato Interconfederale, presieduto da Buozzi, il quale, con notevole disappunto dei comunisti, assunse anche la carica di presidente del giornale “Il Lavoro Italiano” fino a pochi giorni prima “Il Lavoro Fascista”. A metà agosto gli alleati organizzarono massicci bombardamenti al nord: Milano, Torino, Bologna pagarono a caro prezzo le titubanze di Badoglio nell’avviare le trattative per l’armistizio. Esasperati, gli operai scesero ancora una volta in sciopero il 19 agosto ma stavolta l’Italia non era più governata dal fascismo e tuttavia gli operai erano in grave pericolo, visto l’atteggiamento del governo. Così il ministro Piccardi andò in missione al nord con Buozzi, Roveda e Mazzini per far smettere gli scioperi, cosa che riuscì ma costò gravi critiche ai partiti socialista e comunista che, secondo il parere dei militanti ed autorevoli dirigenti, avrebbero dovuto mettersi alla testa di queste lotte invece di agire da pompieri [S. Turone, 1992, pp. 27-30; P. Boni, 1984, pp. 29-37; S. Corvisieri, 2005, p. 42]. La missione fu considerata un errore perché se si fosse sviluppato un movimento a sfondo rivoluzionario la resistenza sarebbe iniziata prima. Roveda fu criticato aspramente in seno al partito comunista, ma non sapeva di aver anticipato involontariamente la linea che nel marzo del ’44 Togliatti fece adottare al partito con la svolta di Salerno. Inoltre, la posizione più moderata di Roveda fu utile per attenuare i timori dei cattolici che temevano il massimalismo del Pci e per facilitare l’adesione di quest’ultimi alla Confederazione unitaria [S. Turone, 1992, p. 29]. Intanto l’esercito tedesco stava mettendo in atto l’operazione Valkiria, cioè la predisposizione delle truppe in modo da controllare l’intera penisola, mentre all’insaputa del Paese il capo del governo, Badoglio, aveva avviato trattative segrete con gli alleati per siglare l’armistizio, firmato a Cassibile, in Sicilia il 3 settembre2 [E.Di Nolfo, M. Serra, 2010, pp. 35-61]. Il giorno 8 ne fu data notizia con un celeberrimo comunicato radio, un vero capolavoro di ambiguità che produsse il disfacimento dell’Esercito, lasciato senza ordini nel momento più grave vissuto fino allora dal Paese, mentre il Re con il suo seguito, il capo del governo, i suoi ministri e i più alti rappresentanti dello Stato fuggivano verso il sud. “Il Re preferì abbandonare Roma piuttosto che difenderla, convinto che i tedeschi sarebbero stati cacciati presto, mentre l’inedito organismo di difesa composto da civili antifascisti e militari sarebbe stato la base per una nuova forma di governo popolare a carattere democratico e Roma” (…) sarebbe inesorabilmente sfuggita di mano alla dinastia” [P.Neglie, 2017, p. 14; E.Di Nolfo, M.Serra, 2010, p. 53]. I tedeschi catturarono 600 mila soldati italiani che in maggioranza furono spediti nei campi d’internamento in Germania. Il programma normalizzatore di Badoglio e della Corona era naufragato: iniziava la Resistenza. “Il primo colpo di moschetto contro i tedeschi fu sparato verso la mezzanotte dell’8 settembre a Roma, nella zona dell’Eur (…) La difesa della Capitale e la Resistenza armata cominciavano per iniziativa di un gruppo di giovani ufficiali” [S. Covisieri, 2005, p. 37]. I tedeschi attaccarono ed a sostenere l’urto furono i Granatieri di Sardegna che in poche ore vennero affiancati da studenti, operai, intellettuali in una battaglia che si protrasse fino alle ore 12 del 10 settembre. Mentre si combatteva usciva il primo numero del ‘Il Lavoro Italiano’. Nelle borgate la Resistenza fu iniziata da persone del popolo, non militanti o con esperienza politica, a differenza del centro dove entrarono in azione le avanguardie. Le borgate erano dei veri e propri ghetti dove con la sua politica urbanistica e sociale il duce aveva deportato i ceti popolari che vivevano in condizioni incivili e forti di un ribellismo che quella vita grama alimentava, erano diventati subito i bastioni dell’antifascismo. Fatto peculiare della resistenza romana fu la rivalità e le aspre polemiche fra il Movimento Comunista d’Italia (normalmente chiamato con il nome del loro giornale ‘Bandiera Rossa’) e il Pci. Questo movimento trovava più assonanza con quel segmento socialista segnato da radicalismo, intransigenza e avverso al compromesso. Tuttavia dopo l’8 settembre la situazione a Roma era desolante: dichiarata “Città aperta” soffriva delle restrizioni sui consumi, la fame, le rappresaglie conseguenti le azioni partigiane, la presenza di spie e di disperati disposti a tutto. Qualsiasi cosa poteva attirare l’attenzione e far scattare la denuncia anonima. La corrispondenza privata era vietata, i telefoni messi sotto controllo, i fortini militari abbandonati erano presi d’assalto per rubare stoffe, divise, cibo, armi e munizioni da usare o da rivendere al mercato nero. E’ fuori discussione che la Resistenza a Roma ebbe dimensioni e forme differenti da quelle assunte nella Repubblica Sociale sotto il tallone nazista, ma è altrettanto vero che non è possibile ridurla all’attentato di via Rasella. L’immagine dominante è quella di una città sorniona, pronta ad adeguarsi a qualsiasi situazione, addestrata in questo da secoli di storia di dominazioni. Una città abituata a convivere con il padrone di turno, che cerca e trova nelle pieghe della quotidianità motivo per tirare avanti, adeguarsi, aspettare che passi. Ma, appunto, si tratta di mezza verità, perché l’altra è fatta di un orgoglioso senso di appartenenza alla propria città ed al proprio paese ed una profonda avversione contro la figura del nemico invasore ma, soprattutto, contro “il tedesco”, già nemico nella Prima Guerra mondiale. Un sentimento penetrato a fondo nella coscienza popolare che persino i bambini avevano interiorizzato e manifestavano con azioni di disturbo. A questa riconsiderazione della Resistenza romana occorre aggiungere anche un’altra confutazione, e cioè che il ruolo dei socialisti nella Resistenza fu marginale, quasi assente, perché a Roma i socialisti furono protagonisti. I sabotaggi erano all’ordine del giorno, così le imboscate, le incursioni stile “mordi e fuggi”: uno stillicidio che se non arrecava danni importanti coglieva il risultato di creare un clima di insicurezza nell’invasore, una sensazione di precarietà e allo stesso tempo ricompattava il fronte antifascista, soggetto all’azione repressiva degli occupanti e dei fascisti.3 Ad esempio, Roma era uno snodo ferroviario importante, infatti il bombardamento sofferto dalla città, da parte alleata, colpì il quartier di San Lorenzo perché lì c’era lo scalo merci. L’azione iniziata dagli alleati fu proseguita dalla Resistenza, che prese di mira ripetutamente gli scali ferroviari con sabotaggi frequenti contro vagoni carichi di armi o di cibo. Contemporaneamente in città si riorganizzavano i partiti, si tesseva la tela delle alleanze e si cercava di dare nuova forma al sindacato appena commissariato contro il quale il neo insediato governo fascista di Salò emise un provvedimento di annullamento delle nomine. Il 23 settembre Buozzi firmò per primo un documento in cui si dichiarava illegittima sia la revoca dei Commissari sia la nomina dei nuovi, quindi si invitavano “i lavoratori ad intensificare la loro attività per la riscossa nazionale contro il ritorno fascista e l’occupazione tedesca” [A. Maglie 2021, p. 246; S. Turone, 1992, p. 32]. Nacquero così i Comitati di agitazione: Buozzi e i commissari si costituirono in “Esecutivo segreto” e il 27 ottobre Buozzi insieme a Nenni, a Clement Attlee - capo del Labour party inglese - e Walter Citrine - capo delle trade unions - inaugurò le trasmissioni di Radio Londra. I negoziati per definire natura, contenuti, gruppi dirigenti della Confederazione non furono semplici né lineari e Buozzi fu la cerniera fra democristiani e comunisti. Senza dubbio egli non solo mediava fra cattolici e comunisti ma rappresentava la garanzia dell’adesione delle masse lavoratrici del nord al patto unitario. Era proprio questo il nodo da sciogliere: l’unità. A fine settembre fu rinnovato il Patto di unità d’azione fra comunisti e socialisti, e il 3 ottobre pur non superando alcune perplessità, anche i cattolici accettarono l’idea di sindacato unitario. Intanto gli scioperi erano ripresi subito dopo la proclamazione della Repubblica sociale, sempre al nord, nonostante le condizioni notevolmente peggiorate rispetto al marzo. Dopo la caduta del fascismo e l’occupazione nazista, il Feldmaresciallo Kesselring, comandante del fronte meridionale, emanò un’ordinanza nella quale si informava che l’Italia era dichiarata territorio di guerra, soggetto alle leggi tedesche di guerra ove lo sciopero era proibito e gli organizzatori sarebbero stati giudicati e giustiziati. Questo sicuramente conferma la natura non solo economica degli scioperi, ma di lotta politica antifascista e antinazista in tempo di occupazione, caso unico fra i paesi in guerra. Per ristabilire i collegamenti stradali e ferroviari si introdusse il lavoro obbligatorio ma furono pochi a presentarsi, tanto che il Comando germanico interpretando questo come atto ostile dispose che chi non avesse ottemperato al richiamo o chi “cerca di sottrarvisi in qualsiasi maniera, soprattutto cambiando residenza, sarà punito secondo le leggi germaniche di guerra” [G. Giannini, 2004, p. 70]. In tale contesto ogni forma di disobbedienza acquistava significato e valore di una opposizione, di una reazione passiva o attiva che anche a Roma assunse la fisionomia della Resistenza. L’organizzazione militare clandestina socialista fu prontamente costituita e posta sotto la presidenza di Pietro Nenni e la direzione militare di Pertini, Andreoni, Vecchietti. Anche la federazione giovanile si riorganizzò prontamente, sotto la guida di Leo Solari, con Piero Boni - futuro segretario generale aggiunto della Cgil - incaricato della organizzazione della struttura militare giovanile. La necessità di riorganizzare l’apparato militare fu anche frutto dell’accordo tripartito (Pci, Psiup, Pd’A) siglato nell’ottobre ’43 che prevedeva la formazione di tre differenti organismi militari. Ciò determinò una nuova situazione che rese necessario per il Psiup portare a termine la costruzione della rete socialista, correggendo tutte le manchevolezze [D. Conti, 2016, p. 173]. Operare su Roma però era complicato e molto rischioso, l’apparato repressivo era efficiente, all’erta, e si avvaleva di spie, di informatori, un sottobosco di canaglie prezzolate disposte a tutto in una città che in quei mesi terribili conobbe la fame vera e la paura. Il 15 ottobre l’occupante mise a segno il primo risultato con l’arresto di Zagari, Corona, Saragat e Pertini; i primi due rilasciati per mancanza di indizi, gli altri trattenuti agli arresti. Era necessario dunque rimodulare i compiti e dotarsi di un sistema di informazioni che neutralizzasse il più possibile l’azione repressiva. Fu così impostato un servizio informazioni che vedeva membri delle cellule socialiste infiltrarsi nei comandi tedeschi, nella Polizia Africa Italiana (PAI), nel Comando SS italiane, nel Tribunale Militare Supremo a Regina Coeli, al Policlinico, al Ministero dei Trasporti: una fitta rete operativa che subito raccolse importanti risultati, primo fra tutti il collegamento con i servizi americani, l’OSS, per il quale preparava ben due bollettini al giorno fatti pervenire per il tramite di Peter Tompkins. Responsabili di questo servizio furono nominati Vassalli e Gracceva e benché la memorialistica si è dedicata più all’attività dei comunisti, i socialisti a Roma non furono da meno e da questo momento in poi - aderendo alla parola d’ordine della Resistenza europea “rendere la vita impossibile agli occupanti” [G. Giannini, 2004, p. 78] - portarono a compimento uno stillicidio di attentati contro i tedeschi, organizzarono l’addestramento all’uso delle armi e degli esplosivi, la raccolta delle armi, un servizio di controspionaggio, una rete di alloggi clandestini, un servizio di assistenza medica per i feriti nonché un “ufficio falsi” per documenti, lasciapassare ecc. [Archivio IRSIFAR, Gruppo di serie A. Serie I, doc. del Psiup e del Psi 1944, serie XX Antifascismo e Resistenza a Roma attraverso testimonianze e storie dei protagonisti IRSIFAR, A.I.1]. Intanto a Napoli, che a fine settembre ’43 si era liberato da solo dei nazisti con 4 giornate di battaglie eroiche, nelle file comuniste era prevalsa una corrente critica verso la dirigenza, ostile alla presenza dei cattolici nella Confederazione. Sia il partito che la Confederazione del lavoro si collocarono su tali posizioni e con una vera e propria scissione diedero vita a strutture con le quali il Pci e la Confederazione del lavoro ebbero rapporti tesi e difficili. La realtà napoletana rischiava di compromettere il faticoso negoziato in atto a Roma e invece occorreva che nel sud liberato la situazione fosse omogena con quella romana. Ma siccome a Napoli la situazione sembrava compromessa, perché il controllo della frazione scissionista era pressoché totale, ci si spostò su Bari dove venne convocato un convegno sindacale, per il 29 gennaio ’44, al fine di costituire una confederazione unitaria che comprendesse Pci, Psiup, Dc. Il collegamento fra i negoziati di Roma e Bari era tenuto da Lizzadri, partito il 23 gennaio da Roma clandestinamente, con documenti falsi, al posto di Buozzi. Il Convegno nominò questi segretario generale e vice segretari Roveda e Grandi, decisione seguita da una polemica aperta dai comunisti, scontenti per il risultato che, dissero, dipese dalla situazione favorevole ai socialisti da essi stessi creata [S. Turone, 1992, p. 74]. Intanto la risalita degli alleati si era praticamente bloccata e la Resistenza a Roma viveva momenti difficili. Il 18 febbraio del ’44 grazie all’azione coordinata della cellula ferrovieri e del Gap socialista della VII zona, alla stazione Ostiense furono fatti saltare sei vagoni carichi di armi tedesche da usare contro gli alleati sbarcati ad Anzio. Il generale Clark4 in persona si congratulò con il comando della Brigata Matteotti. A metà marzo però quasi tutti i socialisti della VI zona (Appio, Prenestino, Esquilino, Celio) furono arrestati in seguito ad una delazione, che si confermava uno dei pericoli maggiori in questa contraddittoria e multiforme città in cui l’attendismo, il “tirare a campare” aspettando che passasse la bufera, preoccupava la guida politica della Resistenza. In questo contesto maturò l’attentato di via Rasella, il più grave mai realizzato contro gli occupanti nazisti nell’Europa occidentale all’interno della cinta urbana. Il responsabile politico, Amendola, disse proprio che l’attentato serviva a risvegliare la coscienza dei romani, sollecitarli alla resistenza e nello stesso tempo costringere i tedeschi a rispettare la natura di “Città aperta” di Roma e smilitarizzare il centro [G. Amendola, deposizione in “La Nuova Stampa” 19.6.1948: 1]. E’ nota la reazione nazista: per rappresaglia alle Fosse Ardeatine furono giustiziati 335 innocenti. Il problema delle rappresaglie era reale e sentito: i capi partigiani ne discutevano e su di loro gravava la responsabilità di organizzare azioni sapendo quale sarebbe stata la reazione dei nazisti. Eugenio Colorni, capo partigiano socialista, fu fra coloro che inizialmente limitavano le azioni per non sottoporre la popolazione a questo rischio. Tuttavia azioni violente ed ingiustificate da parte tedesca e repubblichina ci furono ugualmente, così si decise di non cedere al ricatto. Fra l’altro le rappresaglie contribuivano ad accrescere l’odio nei confronti dell’occupante, per cui con uno sguardo cinico ma realista potremmo dire che esse erano funzionali alla crescita, numerica ed organizzativa, del partigianato e dello spirito resistenziale. Colorni stesso cadde vittima di un agguato da parte della banda Koch5 a Roma, il 28 maggio’44, mentre i vertici dell’organizzazione militare socialista a Roma furono arrestati: Giuliano Vassalli il 3 aprile nel corso di un’operazione realizzata grazie ad una spia infiltrata nell’Organizzazione Militare; dopo pochi giorni toccò a Gracceva così il vertice direttivo del Centro fu scompaginato. Bruno Buozzi, che dal 16 settembre del ’43 viveva cambiando spesso rifugio per sfuggire alla cattura, ma secondo molti compagni prestava scarsa attenzione alle regole della clandestinità, subì la stessa sorte, il 13 aprile. Arrestato, fu portato in via Tasso ma ancora oggi non sono del tutto chiare le dinamiche dell’arresto e ancor di più quelle del suo assassinio [G. Mammarella, 2021, p. 308]. I tedeschi avevano destinato lo stabile di via Tasso, già ufficio culturale dell’Ambasciata tedesca, a sede del Comando del Servizio di sicurezza e della Polizia di sicurezza comandate dal tenente colonnello Herbert Kappler. Qui venne allestito un carcere tristemente noto perché ospitava persone che potevano essere tratte in arresto senza motivo, interrogate e torturate, e perché da lì si usciva per andare in carcere a Regina Coeli, oppure in Germania o a Forte Bravetta per essere fucilati. Molti prigionieri qui detenuti furono presi per la fucilazione alle Fosse Ardeatine. La cattura di Buozzi fu un durissimo colpo per il sindacato e per tutta la Resistenza romana, che iniziò subito a prendere in considerazione diverse opzioni per liberarlo. Si pensò ad un attacco massiccio a via Tasso, ma l’ipotesi venne esclusa quasi subito e si decise di ricorrere alla corruzione, in un primo tempo delle guardie carcerarie, ma fallito il tentativo si pensò direttamente a Kappler attraverso Ursula Burger, sua amante e figlia del capo ufficio stampa dell’Ambasciata tedesca [G. Mammarella, 2021, p. 331]. Buozzi aveva declinato le sue generalità come Mario Alberti, un nome di copertura, ma le autorità sapevano benissimo chi avevano arrestato in realtà. Tuttavia dopo aver pagato una ragguardevole somma venne liberato un prigioniero che si rivelò essere “il vero” Mario Alberti invece di Buozzi. Questi rimase in cella insieme a 120 altri prigionieri destinati come lui al nord, con i tedeschi in fuga a causa dell’avvicinarsi degli alleati. La notte fra il 3 e il 4 giugno Roma assisteva ad uno “spettacolo” impensabile: mentre i primi reparti americani entravano da sud, i tedeschi fuggivano da nord e non ci fu alcun inseguimento, come se ci fosse stato un patto tacito. In quelle ore concitate, a via Tasso arrivarono tre autobus e qualche camion malmesso che vennero stipati di prigionieri; Buozzi fu fra i primi ad entrare mezzora dopo la mezzanotte sul cassone dell’ultimo camion. La gente era troppa e per far posto a due SS scesero due passeggeri, due fortunati che seppero di essersi salvati solo dopo aver appreso la notizia dell’eccidio. Il viaggio fu molto lento, la strada intasata, i mezzi malfunzionanti e gli aerei alleati creavano problemi con dei bombardamenti di disturbo. Il traballante camion che portava Buozzi impiegò ore per coprire pochi chilometri, poi presso la località La Storta, sulla Cassia, prese una via sterrata e lì fatti scendere i prigionieri vennero giustiziati con un colpo alla nuca. Responsabile della decisione fu Priebke, già distintosi alle Fosse Ardeatine6 [G. Mammarella, 2021, pp.333-343]. Pochi giorni dopo la liberazione, il 9 giugno, i leader sindacali delle tre correnti firmarono il celebre Patto di Roma retrodatandolo al 3 in omaggio a Buozzi, il quale aveva portato avanti le trattative in rappresentanza dei socialisti. L’accordo raggiunto fu il punto d’arrivo di un negoziato lungo, faticoso; un dosato equilibrio in cui i partiti ebbero un ruolo fondamentale che fotografava la realtà. Nasceva così, con un accordo partitico, la nuova Confederazione generale del lavoro; tuttavia il “Patto” non è che la traduzione della volontà unitaria espressa in primo luogo dal mondo sindacale, la manifestazione di un comune sentire i problemi della classe lavoratrice nel contesto di una società gravata da mille problemi determinati dal conflitto, da un ventennio di dittatura e dunque dalla necessità di ricostruire un tessuto umano, economico, sociale. La vicenda umana di Buozzi tuttavia lasciò strascichi e interrogativi irrisolti, sia in merito all’arresto, che pure autorevoli - e credibili - testimonianze, fra cui quella di un protagonista, Eric Priebke, attribuiscono ad un “traditore” di cui non fece il nome, sia in merito alla mancata liberazione, con il “finto equivoco” che portò alla liberazione di un perfetto sconosciuto, ed all’uccisione di Buozzi, martire socialista per la libertà.
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About the authors

Pietro Neglie

University of Trieste (Università degli Studi di Trieste or UniTS)

Email: pietro.neglie@dispes.units.it; pietro.neglie@hotmail.it
Dr. Sci., Professor Modern and European History Trieste, Italia

References

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